Pagina Iniz. 2023 Dicembre «CARITAS CHRISTI URGET NOS»

«CARITAS CHRISTI URGET NOS»

«CARITAS CHRISTI URGET NOS» – (Prima Parte)
LA CARITÀ DI CRISTO CI SPINGE… BEN PIÙ CHE UN COMPITO, LA CARITÀ È UN ORIZZONTE DI SENSO

Tanto per iniziare una riflessione sulla carità…

È la carità di Cristo e nessun altro interesse o scopo che spinge i cristiani ad aiutare il prossimo. Può essere scontato – ma non sempre è chiara questa consapevolezza – che per noi cristiani l’insegnamento evangelico dell’amore al prossimo è inequivocabile e inderogabile, capovolgendo ogni nostra presunta motivazione altruistica e buonista, magari sotto la spinta moralista di dover fare del bene.

Per evitare questa “deriva”, è importante recuperare la riflessione che ricerchi le ragioni, le radici, le motivazioni per cui per un battezzato è connaturale lo stile della carità. È la carità di Cristo che ci spinge (2 Cor 5,14), ci muove ma dal di dentro, è la persona stessa di Cristo e non solo il suo stile che ci appartiene come missione ad operare per una umanità dignitosa, sviluppata e migliore anche nello stretto contesto del nostro “vicinato”.

Di fatto, alcune domande hanno bisogno di opportune risposte: perché portare alcuni alimenti in chiesa come gesto caritativo d’avvento? Perché accogliere, ospitare, integrare gli stranieri? Perché pensare e progettare un “polo o casa della carità” in città? Per quali ragioni dobbiamo preoccuparci addirittura di cucinare per chi non ha da mangiare, offrendo loro un servizio di mensa seppur non causando altro disagio? Per quale ragione dobbiamo intervenire per prevenire il grave disagio giovanile, stimolati da Gesù che è venuto perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza, nella sua bellezza e pienezza (Gv 10,10)? Perché soccorrere chiunque si trova in stato di necessità? Perché fare gesti di generosità o impegnarsi nel volontariato sociale?

Nella loro apparente “banalità” sono domande che sollecitano la consapevolezza dei cristiani e della Chiesa intera a riscoprire la radice di questi comportamenti; e la radice non può che essere ancora una volta quella del Vangelo. Infatti, abbiamo il compito di un autentico ascolto della realtà sociale alla luce della Parola di Dio; per noi credenti la vita in genere, e in particolare l’agire caritativo, non può mai essere disgiunto dalla Parola di Dio, da una risposta radicata nella fede.

Ciò corrisponde al bisogno di essere una “Chiesa sinodale” dove le domande intorno a cui ci si interroga e si cerca di rispondere insieme sinergicamente sono: Come si cerca Dio insieme? Come si distingue la sua voce? Come gli si obbedisce? Come si organizza, con quali ruoli e in che tempi, una comunità che fa discernimento e arriva a decisioni concrete?

Solo così si può arrivare ad una carità che per il singolo cristiano non è solo gesto estrinseco ed occasionale, e -inoltre- che sa dare forma associativa, istituzionale e persino “politica” alle dimensioni della giustizia, della cura, dello sviluppo umano integrale, della pace.

Ecco, dunque, il dovere di fugare ogni dubbio che la carità possa ridursi a qualche gesto sporadico o a buone intenzioni di stampo assistenzialista. Bisogna temere che la carità venga interpretata semplicemente come un “fare di più”, o compiere buoni gesti e ridurre la carità a una serie di iniziative a favore dei bisognosi.

L’orientamento pratico, attivo, concreto – assolutamente necessario per non dissolvere la solidarietà in puro ideologismo – della carità ha bisogno di essere accompagnato da un atteggiamento contemplativo e quindi dalla disponibilità a lasciarsi interpellare in maniera radicale dalla realtà illuminata dalla Parola di Dio. Altrimenti manca di radici e rischia di smarrirsi alla prima difficoltà, di cadere nell’autocompiacimento.

Più che dirci cos’è, la Bibbia preferisce piuttosto descrivere gli atteggiamenti che la carità ispira, o narrarci esempi di carità vissuta come per esempio l’episodio del “buon Samaritano” (leggi la famosa parabola di Lc 10,29), colui che ha saputo “farsi prossimo”. Già da questo racconto emerge subito il carattere fondativo e personale della carità in un duplice senso: innanzi tutto chiama direttamente in causa la persona, la sua dedizione, il suo atteggiamento di gratuità e il suo spirito di compassione, in cui maturano le scelte operative e la organizzazione dei servizi. Appare così che non è solo questione di risorse e strutture. In secondo luogo, la carità si orienta alla valorizzazione e alla promozione della dignità della persona. Il testo biblico in genere, non solo in questo caso della pagina del buon Samaritano, mette al centro dell’attenzione non l’oggetto, ma il soggetto che riceve l’azione caritativa e quello che la compie e la spinta che lo anima ad andare al di là del limite del “dovuto”.

Ben più che un compito, la carità è un orizzonte di senso. In questo senso la carità è in grado di conferire ai programmi umani la direzione, l’orizzonte, la riserva di energie, la traduzione pratica di progetti e azioni concrete. Anche il buon samaritano ha dovuto fare i conti in tasca sua per vedere se poteva pagare l’albergatore che ospitava il bisognoso: ma i suoi conti in tasca li ha fatti dopo aver scandagliato il suo cuore e il suo orizzonte di senso.

LA CARITÀ CRISTIANA NON È SOLO SOLIDARIETÀ SOCIALE PRIMA DI AGIRE OCCORRE CONTEMPLARE E DISCERNERE
Desidero riprendere e continuare la riflessione dello scorso Editoriale sulle radici e le motivazioni profonde dell’agire secondo la carità cristiana.

Il messaggio di fondo dello scorso Editoriale era sottolineare come l’orientamento pratico della carità, attivo, concreto –assolutamente necessario per non dissolvere la solidarietà in puro ideologismo – ha bisogno di essere accompagnato da un atteggiamento contemplativo e quindi dalla disponibilità a lasciarsi interpellare in maniera radicale dalla realtà illuminata dalla Parola di Dio. Altrimenti manca di radici e rischia di smarrirsi alla prima difficoltà, di cadere nell’autocompiacimento e in forme progettuali che corrispondo più alle nostre scelte che non alle esigenze reali dei poveri –in senso lato– che, come dice Gesù, «li avrete sempre con voi» (Gv 12,8). In questo senso affermavo che ben più che un compito, la carità è un orizzonte di senso. Solo così la carità è in grado di conferire ai programmi umani la direzione, l’orizzonte, la riserva di energie, la traduzione pratica di progetti e azioni concrete.

La carità cristiana, dunque, chiama in gioco innanzitutto il cuore e lo spirito della persona, prima della sua intelligenza e delle sue mani, inteso nel senso biblico del centro unificatore dell’intelligenza e della volontà, del desiderio e della capacità progettuale, non come slancio sentimentale legato a una emozione o a una lettura parziale o, peggio di parte, della realtà.

Ritornando alla parabola del buon Samaritano, ciò che dobbiamo considerare con attenzione sono i movimenti del suo cuore, che cosa è scattato in lui, che meccanismo si è messo in moto nel suo animo, quale concreto cammino egli ha percorso per “farsi prossimo”, soccorrere e prevedere i bisogni futuri. È questa attenzione del cuore che consente di non sottrarsi all’intervento caritatevole e al tempo stesso di operare una carità “intelligente”, non pregiudiziale o raffazzonata.

Questa azione di discernimento che nasce dal cuore e dallo spirito permette di considerare anche le difficoltà dell’intervento, di fare i conti con le proprie forze e possibilità ed eventualmente di correggere l’agire solidale, perché sia il più corrispondente possibile alle reali esigenze e il più corrispondente alle proprie capacità. A riguardo San Paolo ci richiamerebbe a questo principio di realtà: «Se infatti c’è la buona volontà, essa riesce gradita secondo quello che uno possiede e non secondo quello che non possiede. Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri» (2Cor 8,12-13) .

Inoltre, proprio perché interpella l’interiorità di ciascuno, essa non è questione puramente confessionale, che riguarda soltanto i cristiani. Anzi può presentare un terreno di incontro e di dialogo al di là delle appartenenze sia religiose che civili.

Questa priorità della contemplazione e della cooperazione non è però di ordine cronologico, come se si trattasse di una fase da attraversare ed esaurire prima di passare a quelle successive, bensì di ordine logico: è una radice che deve continuare ad alimentare tutto il processo che altrimenti languisce.

Come metodo la dimensione contemplativa, anche nell’azione caritativa non è un’astrazione spiritualista, una ricerca di evasione dalla realtà o anche solo esercizio riservato a pochi. Al contrario, la contemplazione è la capacità, che occorre coltivare e allenare, di andare al di là di apparenze e contingenze per riconoscere ciò che più profondamente si manifesta. Non è un allontanamento dalla propria vita, ma di essere aiutato a renderla più cosciente, attenta, spedita e lieta.

Così nell’ambito della carità quest’attitudine permette di andare in profondità di ogni realtà comprese le dinamiche sociali, di approfondire le questioni problematiche, di leggere i “segni dei tempi”, di avviare un percorso di solidarietà condiviso, di rispondere alle domande che la carità stessa pone: A chi mi sento chiamato a farmi prossimo? Come? Fino a che punto posso, devo, ne ho le forze, desidero arrivare? In sintesi: l’agire deve sempre essere docile allo Spirito.

Solo la coscienza illuminata dalla Parola e dallo Spirito, dunque, potrà dirci quale carità va fatta, quale gesto di volta in volta va posto in atto, quale progetto scegliere tra i tanti che possono esprimere l’azione caritativa. La Parola di Dio e la voce della coscienza dentro di noi illuminano la coscienza morale e la fede, che in tal modo indicano le scelte e l’agire solidale concreto. (continua prossimamente)

don Maurizio

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